Una delle promesse dei tanti corsi di gruppo è la riduzione del dolore attraverso il miglioramento di una capacità essenziale come la flessibilità muscolo-scheletrica, che si raggiungerebbe attraverso posture particolari ed esercizi tramandati da varie scuole e filosofie orientaleggianti. Già in un precedente vecchio articolo (che potete trovare sul mio blog o qui sul Corriere) scrivevo del mito della flessibilità che curerebbe il dolore, ma qui voglio approfondire un altro concetto.
Ai miei pazienti ho sempre raccomandato di fare molta attenzione a queste discipline, attraverso un’analogia molto semplice: quella della catena. Una catena, se tirata con forza e per sufficiente tempo, alla fine cederà sempre in un punto: il suo anello più debole. Stessa cosa accade nel nostro sistema muscolo-scheletrico.
Non tutte le articolazioni hanno la stessa flessibilità, sebbene la maggior parte degli esercizi siano multiarticolari, coinvolgano cioè più articolazioni, tendini, capsule e legamenti.
Cosa accade quindi? Che le articolazioni più flessibili, quelle con un tessuto connettivale più lasso (o con conformazione ossea accomodante il gesto motorio) siano più predisposte a cedere progressivamente e a subire danni (capsulari e tendinei) da iper-stiramento; al contrario quelle più rigide potrebbero subire danni per eccessiva tensione.
Altro discorso complementare va fatto per i nervi che non hanno in tutti gli individui la stessa lunghezza e non hanno in tutti le stesse capacità di scorrimento rispetto al connettivo su cui scorrono.Ciò ad esempio favorisce l’instaurarsi della classica sciatica in soggetti predisposti, durante gli esercizi di stretching dell’arto inferiore.
Facciamo un esempio semplicissimo, per capire il concetto di flessibilità differenziale articolare.
Se provate ad effettuare il test punta dita-terra (come in foto dell’articolo, sì avrete notato la mia scarsa propensione al disegno) raggiungerete varie distanze dal pavimento; la distanza raggiunta dipende da diversi fattori: la mobilità dell’anca in flessione, la mobilità della colonna dorso-lombare, la flessibilità dei flessori della coscia e la lunghezza e mobilità del sistema nervoso periferico.
Uno dei modi più insani di procedere, per incrementare la mobilità e ridurre la distanza da terra nel test punta delle mani-piedi, è quello di fare i classici esercizi di mobilità e stretching. Con questi esercizi, infatti, cederà l’articolazione più debole e la più rigida potrebbe andare incontro a danni. Se ad esempio si hanno delle anche ipomobili, per fattori congeniti o acquisiti, sarà facile andare incontro a fastidiosi mal di schiena da stiramento della lombare bassa. Questo è solo un esempio su un banale esercizio ma potrei farne a decine.
Ecco queste nozioni base vengono spesso (se non sempre) ignorate in varie discipline e i danni poi sono evidenti. Oggigiorno infatti si “vende” il movimento come panacea a tutti i mali, a prescindere dalla tipologia e della costituzione morfo-funzionale dell’individuo a cui viene prescritto.
In estrema sintesi, alla prossima lezione di Yoga, Pilates, stretching di gruppo o altro dovete essere consapevoli di ciò:
- non tutti (in base alla costituzione e alle problematiche di cui siete consapevoli o meno) state facendo lo stesso esercizio. Anche se vi sembra di farlo allo stesso modo i vostri muscoli e le vostre articolazioni lo stanno eseguendo in tanti modi quante persone sarete in sala ..
- Ad alcuni farà un gran bene, ad altri arrecherà sicuramente danno (in base sempre alla costituzione morfo-funzionale e al dosaggio).
Nessuno di noi assumerebbe una terapia farmacologica in gruppo. Sarebbe insano far prendere lo stesso farmaco a soggetti con patologie diversissime aspettandosi poi gli stessi risultati.
Non si capisce il perchè invece si paragoni l’esercizio ad un farmaco e poi si programmino lezioni di gruppo. Il farmaco può essere un veleno; anche l’esercizio se somministrato a casaccio o in dosi non appropriate.