Io ci sono non perché ceda ai facili entusiasmi o ai sentimentalismi ma per ridare un soffio di vita alla mia città e per sentirla unita a tutte le città d’Italia, confuse smarrite, sofferenti, sole.
Io ci sono per essere vicina alle zone più colpite che lottano contro un nemico subdolo e invisibile, per dire che oggi siamo meno distanti che mai, per sentirci ancora, di nuovo una nazione.
Per portare Milano in spiaggia e Palermo in montagna, la Fontana di Trevi per un giorno a Verona e la Torre di Pisa a svettare sul mare, sul Gargano magari o in vacanza a Cortina. E il barocco leccese per un giorno a Varese? E se Brera scendesse per la cena a Matera? E Viterbo in campagna e l’ulivo a sciare?
Ma si sa sono forse poeta e la vena si svena quando arranco alla cieca.
Ma ci sono per dire che oltre i governanti, i comunicati, le video conferenze, c’è la gente comune, quella che si sveglia ogni giorno perché “non si vive di solo pane”; perché “io speriamo che me la cavo”; perché “chi ha tempo non aspetti tempo”; perché stenta sempre più a dormire la sera, i sogni nell’armadio in cantina, dove i Beatles hanno un velo sul disco.
Io ci sono perché senza azione, se pur minima e da un balcone, noi non esistiamo; per dire che non siamo numeri o statistiche, ma suoni,colori, canzoni. Siamo persone.
Io ci sono perché so che ci saremo in tanti e ci abbracceremo; in tanti dispenseremo forza e solidarietà e non saremo soli, abbandonati dall’indifferenza dell’EUROPA che per ora, e dopo settimane di richieste di aiuto inascoltate (vergogna!) sta inviando solo una manciata di promesse stitiche.
Siamo all’oscuro di tutto, se non di quello che stiamo vivendo e chissà se mai sapremo. Ma posticipiamo il momento delle risposte, oraabbiamo bisogno di credere che finirà e che forse torneremo migliori di prima, se le mani erano talmente sporche che strofinando forte d’amuchina ancora non basta a farle trasparenti.
Prepariamoci per quando sarà finita, non facciamoci prendere alla sprovvista, rispolveriamo i vestiti fuori moda per ricordare i tempi in cui i sogni avevano le zampe d’elefante e le cinture a vita bassa riuscivano a guardare il cielo.
Prepariamoci.
Saremo gli occhi dei bambini che raccolgono conchiglie e costruiscono ponti con la sabbia.
Saremo madri che hanno impastato il pane con una lacrima (sfuggita di nascosto dall’orgoglio) e distribuito a fette la speranza.
Saremo i figli e quel disordine che tanto amiamo a sparpagliare gioie quotidiane.
Saremo i nonni col plaid sulle ginocchia a dirci che siamo tornati, nuovamente. A casa.
Le stelle
hanno gli occhi di sempre
La notte
mantiene sempre le sue promesse
Maria Teresa Infante